Stato di divieto

Io sono un fumatore. Non lo dico con orgoglio, lo dico solo perchè così è. Fumo sigarette esattamente da ventitre anni tre mesi e qualche giorno, da quel giorno d’estate in cui partii per le vacanze da solo e prima di salire sul treno diretto al sud comprai un pacchetto di Marlboro da venti e quando scesi alla stazione di Foggia dove avevo una coincidenza credo ne comprai un altro. Da allora ho cambiato marche ma non ho più smesso. Nemmeno un giorno.
Se me lo chiedete non so esattamente perchè fumo, o perchè non smetto. Forse per un distorto senso di libertà che la cicca ti da, forse non mi voglio abbastanza bene, o forse semplicemente perchè sono della Vergine, che non c’entra ma c’entra, perchè noialtri nati sotto quel segno siamo in genere abitudinari, costanti e metodici, per cui se uno della Vergine comincia a fare una cosa in linea di massima vorrebbe continuare a farla vita natural durante. Detto fra noi mi è andata ancora bene che il mio approccio con le droghe sia stato deludente, altrimenti sarei stato un signor tossico e anzi, considerata la merda che girava vent’anni fa, immagino avrei fatto la fine di tanti miei coetanei. Comunque qualche vizio, i pochi che ho, me li porto dietro da anni e questo è.
Quando ho cominciato a fumare il divieto credo ci fosse solo nei cinema e nei teatri, ma era in vigore solo da un paio d’anni, e non si fumava negli ospedali, mi pare, per quanto anche lì ogni via di fuga era buona, per il resto si fumava dappertutto. In questi anni tabagisti ho visto allargare il divieto di fumo in maniera direttamente proporzionale al costo delle sigarette: più vietano di fumare, più costano le sigarette. Evidentemente devono recuperare i soldi persi mi dico, ma sopporto, perchè in fondo andare al ristorante senza sentire odore di fumo è una cosa giusta, seppure mi stai togliendo il piacere di fumarmi una cicca in tranquillità dopo aver mangiato, devo uscire al freddo e al gelo per farmi una paglia, ma vabbeh, sopporto.
Nei bar e nei pub sopporto meno, perchè lì davvero mi levi tutto il piacere dell’accoppiata bevuta/fumata e il fascino dato da un locale fumoso, ma pare che il fumo disturbi chi non fuma (che mi chiedo allora che cacchio vada a fare in un pub!) e poi torni a casa con i vestiti che puzzano e dunque anche qui, mavabbehsopporto. Nelle discoteche poi vale lo stesso discorso dei pub e se una volta tornavi con i vestiti che puzzavano di tabacco oggi torni con una puzza d’umanità che l’odore di sigaretta se non altro copriva: solito ma vabbeh sopporto, anche perchè in disco non ci metto più piede da anni per cui mi costa veramente poco.
Questo per i locali pubblici e vale logicamente pure per i luoghi di lavoro, e dice puoi sempre fumare a casa, ma in casa mia non è diverso dagli altri posti, in quanto c’è il tacito accordo che non si fuma dentro, quindi mi tocca emigrare sul balcone per farmi una tirata ogni tot. Ma va bene anche qui, sopportiamo, è una rottura di coglioni dover fumare in fretta e furia e pure in piedi ma sopportiamo, è diventata sempre più dura per noialtri fumatori, ma si sopporta.
Ti rendi conto a conti fatti, per quel che riguarda me, che l’unico luogo chiuso al mondo dove nessuno si lamenta perchè fumo è la mia auto, che uso solo io per cui vorrei vedere, e difatti in auto la cicca proprio me la godo, e quando guido mi piace anche perchè sto fumando e guidare fumando con magari pure lo stereo acceso è una figata assoluta, uno degli ultimi piaceri rimasti. In quella auto diventata ultimo baluardo e ultimo rifugio sei veramente a casa tua, comandi tu e ovviamente fumi quanto cazzo ti pare!
Ora, non ti arriva una testa di cazzo, che evidentemente non fuma ma a cui piacciono i fuochi, a proporre il divieto di fumare pure nelle auto? Ah che bello l’Occidente, terra di giustizia e libertà. Soprattutto libertà!

Incubo

Stanotte ho avuto un incubo.

Ho sognato che ero diventato interista.

Pagheremo caro, pagheremo tutto

Un ulteriore passo indietro, parlando di diritti umani più che civili, si sta compiendo in questi giorni dalle solite parti romane, dove votano leggi ai più incomprensibili, se non passando per le solite logiche di profitto come da politica neoliberista e dalla necessità di far cassa senza dover immettere nuove tasse, come da venti anni a questa parte. Si apre ai privati quindi un altro pezzo di bene comune e l’acqua è solo l’ultimo dei beni statali liberalizzati dopo le massicce privatizzazioni avvenute dai primi anni ’90 fino ad oggi. Su questo tema, la privatizzazione dell’acqua la cui notizia al Tg2 delle 20.30 è stata liquidata in cinque secondi cinque, la mia bella firmetta per dire no l’ho già messa qualche settimana fa presso un ente promotore della protesta (forse il FIMA, ma non ne sono certo) che faceva opera di informazione.
Ho firmato col disincanto di chi sa che forse è inutile, anche se la speranza è l’ultima a morire, e con la rassegnazione di chi ha già visto questo film in questi anni, con protagonisti le telecomunicazioni, le autostrade, l’energia elettrica, il gas e molto altro, e si è sorbito il finale fatto di rincari sulle tariffe e peggioramento dei servizi in quasi tutti i casi. Ad ogni modo però, più che chiedermi perchè questo Stato sta cedendo quasi tutte le sue ricchezze, non essendo un economista, la domanda è perchè stiamo lasciando fare scempio di questo Paese a coloro che invece dovrebbero servirlo.
La risposta ovviamente non la conosco, conosco però quelli che potrebbero darla, cioè noi stessi, e per noi stessi intendo quella generazione che per età e compiti avrebbe dovuto avere cura di quanto costruito da chi li aveva preceduti. Quella generazione di cui faccio parte, che negli anni ’80 aveva vent’anni e ha sprecato l’energia della giovinezza correndo dietro a miti d’importazione e ai fatti propri, barattando valori in cambio di automobili e stronzate, che è riuscita a dare fiducia incondizionata a fenomeni da baraccone politico e che ancora oggi, mentre naviga tra i trenta e i cinquant’anni, nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere lo sfacelo in cui si è immerso.
Io, che di quegli anni conservo il ricordo rancoroso di notti trascorse in fabbrica ad alienarmi, producendo pezzi di quelle macchine che mi avrebbero poi rivenduto, alla rivoluzione confesso di aver smesso di credere da un bel pezzo, forse proprio una di quelle notti, ma ho conservato per lungo tempo la speranza che forse magari chissà un giorno. E invece mi ritrovo a pensare che siamo irrimediabilmente fottuti, e l’unica speranza che vedo è nei figli che questa generazione sta crescendo, perchè se è vero che è natura del figlio rivoltarsi verso il padre, con noi avranno tutte le ragioni del mondo per farlo, e faranno bene a farcela pagare cara, a farcela pagare tutta.

Impressioni di novembre

Novembre mi riporta sempre indietro nel tempo, ho delle associazioni fisse ormai. Novembre è un me stesso giovanissimo, quattordicenne, che legge divorando castagne rannicchiato in poltrona un fumetto di Toppi senza sapere che è disegnato da quel grandissimo che è ancora Sergio Toppi. Fuori c’è nebbia, quella nebbia che ormai non si vede più neanche da quelle parti e che rimpiango, a volte.

Strana cosa la memoria. Per dire, Alive dei Pearl Jam per me è San Sebastian-Donostia, non novembre ma agosto, estate 1993, io e il Cosma (ciao bello) nella più improbabile coppia ad andare in vacanza assieme. E’ il Monnezz Tour II, riedizione dopo quattro anni dei venti giorni in giro per l’Europa in treno, Germania Francia Spagna d’un fiato, ritorno con quindicimila lire in tasca in due. Dal secondo viaggio, dritti in Spagna questa volta in macchina, il ricordo per me indelebile dell’ascolto di tre ragazzi sui trenta annni, basso chitarra e batteria, in una piazza del centro che suonano solo pezzi strumentali, la voce la fa il pubblico. Alive è cantata in coro da decine di accenti di differenti nazioni, dopo tocca a Killing in the Name, Rage Against the Machine, e questi tre a torso nudo e capelli lunghi la suonano paro paro e delle parole proprio non c’è bisogno, che nella mente di tutti c’è la voce di Zack De La Rocha e tanto basta. Ed è buffo ricordare questi tre giovani, le cui fattezze ho scolpito in testa, di cui non so nulla e mai ne saprò, e pensare che loro manco lo immaginano di vivere in costante giovinezza nella mia mente.

Terapie

Giorni di scrittura, non su queste pagine, dando libero sfogo alla fantasia per combattere il vuoto delle troppe ore libere dal lavoro, inseguendo forse niente. Vedremo, se se ne ricaverà qualcosa. Intanto mi tiene lontano dal chiacchiericcio deprimente dei telegiornali e degli anni zero. Devo dire che star lontani non è poi così male. Il mio sistema gastrointestinale certamente ne guadagna.

Berlino 1991

A Berlino ci sono stato (no, non con Bonetti) un paio d’anni dopo che la breccia si era aperta, ed era davvero un po’ triste e molto grande. Arrivammo in treno e scendemmo all’est, un po’ per errore e un po’ per scelta, in una mattinata grigia di pioggia e di fumo. Ci colpì l’atmosfera tetra della Hauptbahnhof (quella vecchia, quella di oggi è un’altra) con le volte in metallo pesante non verniciato, la mancanza di luce sufficiente, l’addetta alle informazioni che non conosceva altre lingue oltre al tedesco e al russo, l’odore pungente di pessima benzina che ci investì non appena uscimmo, i giovani punk appena fuori lo Zoo.
Prendemmo stanza in un enorme complesso poco fuori la città, a sud, probabilmente una ex caserma riconvertita in albergo: tante stanze arredate alla meglio, corridoi semivuoti e bagno in comune. Costava poco.
Si notava ancora in Berlino la differenza tra ciò che era stato e ciò che avrebbe potuto essere, erano ancora due mondi differenti a contatto per quanto già le cose stavano velocemente cambiando. La penombra, di luce e di sentimento, della parte est ancora resisteva nei quartieri popolari, coi lampioni che mal illuminavano le vecchie Trabant e Skoda parcheggiate sui ciottoli delle vie fuori casa.
Mangiammo una sera salsiccie patate e birra in una taverna color legno nel sobborgo che ci ospitava, dove ci servirono pane nero preso direttamente dal congelatore. Colpa nostra che lo richiedemmo, da loro non usava. Ai tavoli pochi vecchi dall’aria di chi ne aveva viste tante, e noi, giovani italiani che ancora non avevano visto niente.
Ci devo tornare a Berlino, prima o poi.

Fortezza Europa

A volte qualcosa, o qualcuno, mi sveglia dal torpore e mi ricorda, di nuovo, che molto passa sopra le nostre teste senza che ne abbiamo sentore. Modifiche a milioni di vite, decise da burocrati zelanti e uomini di Stato incoscienti, il tutto senza troppo clamore, come un gas letale. Casca l’ultimo vincolo e tutto è pronto, qualcuno sarà forse ricompensato per i suoi tradimenti.
Si posa la prima pietra, reale, per la nuova fortezza.

http://www.youtube.com/watch?v=KltbGTEx8X0&feature=related

New disposition

Ho detto basta, oggi, in poche parole. Fuori, mentre davo le mie ragioni del distacco, necessario ormai, pioveva come se la terra non avesse mai visto acqua. Poi il sapore liberatorio di parole di dimissioni è stato accompagnato dal ritorno, letterale, del sole a illuminare. E mentre mi lasciavo alle spalle due anni di lavoro, accompagnati da dubbi e da incertezze, per entrare in una nuova fase con nuovi dubbi e nuove incertezze, l’atmosfera era ideale, e nell’intimo trovava spazio una nuova disposizione.

Di fuffa n° 1

Oroscopo del giorno: Vergine.

“Oggi vi sentirete come abbandonati? Non guardate fuori di voi perché qualcosa è avvenuto all’interno di voi stessi. Saturno proprio oggi vi lascia dopo due lunghi anni lasciando con sé un bagaglio carico di maturità. Salutatelo con dolcezza, bando alle amarezze o malinconie!”

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Proprio ora che mi ero abituato a quel rompicoglioni.

Di recensioni

Ci sono due cose, parlando di cinema, per me completamente inutili: la classifica dei più visti nelle sale e le recensioni dei film.
La prima è quella cosa che ti spinge ad andare a vedere un film anche per il fatto che ci siano andati altre vagonate di persone. Questo non vuol dire che il film sia bello, magari sì ma magari anche no, tu hai un gusto tuo e magari Parnassus lo hanno visto milioni di persone a cui ha decisamente fatto cagare, mentre a te non è detto che non piaccia visto che adori Terry Gilliam e finora non ti ha mai deluso, o magari fa cagare anche a te (non l’ho ancora visto, magari vi dirò!) e allora il successo al botteghino vuol solo dire che era una cagata di successo, cosa che tra l’altro hai pensato di The Millionaire lo scorso anno, quando a tre quarti di film mi sono chiesto quali oscuri criteri avessero spinto i giurati del premio Oscar a dare 8 statuette a una tale puttanata e perchè quella merda stava piacendo a tutti quanti me escluso, domanda quest’ultima che può mettere in crisi tutto un sistema di valori basato sulla negazione dell’individualismo e sulla comunione di sentimenti alla base di un mondo ideale al di là da venire, a pensarci.

Dell’ inutilità della seconda cosa relativa al cinema ho invece preso ieri piena coscienza, dopo aver letto a posteriori la recensione che fanno qui di un film di un paio di anni fa che ieri sera ho rivisto con mio sommo godimento.
Il film in questione è L’Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford del regista neozelandese Andrew Dominik, film lungo almeno in proporzione al titolo visto che dura qualcosa come 160 minuti, di ambientazione western ma che col genere c’entra poco.
Scrive l’autrice della recensione: “Il film di Dominik si limita all’introspezione psicologica senza riuscire ad appropriarsi dell’universo western né a calarvi l’eroe più discusso della mitologia americana (…) privo del fascino irresistibile del cavaliere romantico, della grandezza dei suoi sentimenti, dell’amore per gli spazi aperti, della radiosità che lo rese popolare e lo consacrò alla leggenda: il bandito d’onore, il bandito battista, l’espropriatore degli espropriatori”.
Ora, a parte chiedersi dove mai abbia preso questa idea di Jesse James “radioso” e onorevole bandito modello Robin Hood che leva ai ricchi per dare ai poveri, mentre in realtà era solo un ex guerrigliero sudista che campava di rapine ammazzava senza stare a pensarci e approfittava dei sentimenti antinordisti per coprirsi il culo, viene l’idea di un film mal riuscito, né più né meno, e a voler seguire i consigli del genio recensore uno se ne sta a casa e evita di buttar via soldi.
Peccato alcune cose, che il film che ho visto io voleva essere davvero un film psicologico, che il punto di vista non è su Jesse presunto eroe ma su Robert presunto codardo, che è un film sul mito e sulla costruzione della propria vita sull’immagine di un’altra persona, dove uccisa l’una muore anche l’altra. E’ anche un film sui sentimenti umani, molto semplici, quali l’amicizia e la sua caducità, ma soprattutto sul coraggio e la vigliaccheria, presenti in ognuno in egual maniera, dove l’ “eroe” Jesse uccide sparandogli alle spalle un ex amico tanto quanto farà poi con lui il “codardo” Robert.
E’ un film volutamente lento, con una colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis drammatica e ben legata alle immagini, pieno di gesti quotidiani che non siamo abituati a vedere in un western, ma che lo fa apprezzare proprio per questo, per quello spogliare il genere di tutta l’epicità che lo ha sempre contraddistinto e riportarlo semplicemente a livello umano. Il film sembra dire che la vita non ha niente di epico, è fatta di tante piccole cose, di qualche momento esaltante e di tante debolezze e nessuno sfugge a questa legge, non il piccolo vanaglorioso Robert Ford ma nemmeno il grande eroe Jesse James che viene qui riportato alla sua giusta dimensione proprio dalle parole di chi di quella venerazione si è nutrito fino a pensare di potersi sostituire a lui, per arrivare alla fine a comprendere che “è solo un essere umano”, ma anche e soprattutto che non si possono uccidere i miti.
Per tornare a noi dunque si può dire che io abbia visto una roba completamente diversa da chi aveva recensito il film (o anche solo che chi lo aveva recensito si era messa a guardarlo pensando di vedere Ombre Rosse ed era rimasta delusa per il mancato arrivo degli indiani!), da qui l’inutilità della sua recensione, almeno per il sottoscritto.
Poi certo, sicuramente ci sarà stato chi avrà visto il film dopo averne letto la descrizione e sarà uscito dalla sala lamentando di mancate sparatorie e grandi spazi, indiani urlanti e banditi “radiosi”. Immagino gli stessi che “i neri hanno il ritmo nel sangue”, “non c’è più la mezza stagione” e “i comunisti mangiano i bambini”.